“In ogni conflitto le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria.”
Forse nel board della People’s Bank of China (PBOC) circolano le parole del grande stratega Sun Tzu quando, lo scorso 11 agosto, viene presa la decisione largamente imprevista di effettuare una repentina svalutazione dello yuan: 2.9% in una singola giornata.
Una simile manovra garantisce un vantaggio alle imprese cinesi esportatrici a scapito dei competitori stranieri, e subito si è parlato di “guerra tra valute” ipotizzando una rappresaglia nella forma di operazioni speculari da parte di altre banche centrali.
La preoccupazione si è intensificata il giorno successivo di fronte ad un nuovo movimento al ribasso dell’1.6%, la scossa più forte degli ultimi 20 anni considerando il 3.6% complessivo raggiunto in soli 2 giorni. È una cifra decisamente significativa rispetto all’usuale politica della banca centrale cinese, che comporta una fluttuazione massima del 2% attorno ad un “punto di parità centrale” rispetto al dollaro determinato giornalmente.
Venerdì la situazione della valuta era già tornata nella norma, ma le conseguenze di questa virata improvvisa continuano a farsi sentire. Prima di tutto nelle nervose reazioni dei mercati, pronti a liberarsi di massicce quantità di titoli legati ad economie emergenti, avendo interpretato la manovra come un segno di debolezza dell’economia cinese.
Il crollo dello yuan ha inferto un duro colpo anche alle già flebili prospettive di crescita europee, danneggiate sia dalla maggiore competitività degli export cinesi, capace di indurre una pericolosa deflazione, sia dall’affievolirsi del finora insaziabile appetito dei consumatori cinesi per i prodotti di lusso, ora più cari in termini di valuta nazionale. Significativo in questo senso il percorso delle azioni del gruppo LVHM, proprietario tra gli altri del marchio Louis Vuitton, che hanno perso quasi il 7% dal 10 al 12 agosto.
Anche gli Stati Uniti hanno sofferto gravi conseguenze: si prevede un intensificarsi dell’effetto negativo sugli export dovuto al dollaro forte, che è già costato il 2% del PIL nel primo trimestre del 2015. Questa frenata imprevista potrebbe portare Janet Yellen a posporre l’atteso rialzo dei tassi di interesse della Federal Reserve. Tale prospettiva è preoccupante a fronte delle indicazioni di un mercato del lavoro a rischio surriscaldamento che minaccia di stimolare l’inflazione a livelli indesiderati.
Ma che cosa ha spinto la PBOC a svalutare?
La versione ufficiale del governatore Zhou Xiaochuan recita che la svalutazione non è “consistente” né “permanente” e persegue l’obiettivo di una quotazione più in linea con le aspettative dei mercati, che ritengono il renminbi fortemente sopravvalutato.
Tuttavia, la manovra della banca centrale cinese può essere letta come un disperato tentativo di tenere in vita un modello di crescita fortemente alimentato dalle esportazioni, ormai avviato al tramonto a giudicare dalle recenti performance deludenti: l’aumento del 7% del PIL previsto quest’anno è il tasso più basso registrato negli ultimi 25 anni.
Al contrario, la maturità ormai raggiunta dall’economia cinese suggerirebbe una transizione verso una maggiore fiducia nella capacità dei consumi interni come motore della crescita. Ma ricalibrare un intero apparato economico è costoso, in senso economico ma soprattutto politico, e il Partito Comunista non sembra ancora pronto a compiere questo passo.
A prescindere dalle motivazioni, ci troviamo di fronte ad un’operazione in forte controtendenza rispetto alle direttrici della politica monetaria statunitense. Potrebbe trattarsi del primo passo verso una posizione di primo piano sullo scacchiere valutario internazionale.
D’altronde, non è un mistero che la Cina abbia richiesto un ruolo più importante per lo yuan all’interno del paniere di valute del Fondo Monetario Internazionale e la recente creazione dell’Asian Infrastructure Investment Bank, fortemente osteggiata dagli Stati Uniti, segnala la volontà di una maggiore indipendenza.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali, l’intraprendenza di Beijing spaventa molti “falchi” di Washington che già gridano alla manipolazione, temendo non solo le conseguenze economiche ma soprattutto una perdita di influenza americana: che la guerra delle valute abbia inizio.
“This map shows the global impact of China’s currency devaluation” Foreign Policy, 13th August 2015“.
“How China’s currency move shows the limits of White House influence“, Politico.