La survey, ideata e realizzata da eKuota (il testo completo del sondaggio si trova qui) è un’analisi del mondo economico e imprenditoriale italiano che non si arrende e che decide di investire laddove vede opportunità di sviluppo. E oggi queste opportunità sono soprattutto all’estero. Gli imprenditori che cosa chiedono alle banche?
In generale
il giudizio degli imprenditori sui servizi finanziari è critico. L’atteggiamento delle banche viene visto come “provinciale” e di “scarso supporto”, rispetto alla propensione a operare sui mercati internazionali e alla possibilità di produrre in altri paesi. Questi sono i risultati del sondaggio che eKuota ha promosso tra le imprese industriali italiane attive all’estero
Alla domanda relativa alla qualità dei servizi finanziari, le risposte sono relativamente positive rispetto all’attività delle banche verso le aziende, per ciò che riguarda la “presenza sul territorio” e alla “gestione delle valute”. In entrambi i casi (su di una scala discendente: ottima, buona, sufficiente, insufficiente, scarsa), prevalgono coloro che hanno risposto “sufficiente”.
Spicca tuttavia l’assenza di “ottimo”.
Il giudizio è invece complessivamente negativo per ciò che attiene a “consulenza amministrativa, legale & fiscale” e “ampiezza dei servizi”. Il campione esprime poi una solenne bocciatura riguardo alla voce “credito”, dove la valutazione predominante è “scarsa”.
Posto questo, le domande successive sono state:
• quali sono le esigenze di queste aziende?
• le banche aiutano le imprese italiane all’estero?
Valute e materie prime
Dal campione emerge che le esigenze delle piccole e medie imprese sono tutto sommato ricorrenti e “classiche”. Infatti, coerentemente con la loro vocazione manifatturiera, le aziende italiane oggetto dell’esame, trattano tutti i più importanti metalli industriali:
• acciaio (77,8% dei casi);
• alluminio (44,4%);
• rame (37%).
Queste le prime tre voci, ma sono presenti – con percentuali inferiori – anche argento, nickel e zinco.
Ebbene, il dollaro USA, la valuta incontrastata per i pagamenti internazionali di queste materie prime, resta di gran lunga anche la divisa più importante (88,5% dei casi in esame) per le aziende italiane che operano con l’estero. La lista prosegue poi con: sterlina britannica (23,1%); franco svizzero, renminbi cinese e real brasiliano (tutti al 15,4%) e dollaro australiano (11,5%). A seguire rublo russo, yen giapponese, lira turca e dollaro canadese.
Denaro fresco e investimenti
Come abbiamo visto dunque, le piccole e medie imprese manifatturiere italiane danno un giudizio perentorio sul supporto fornito dalle banche. È positivo solo per quanto riguarda la presenza fisica sul territorio e i servizi più standard, come quelli relativi alla gestione delle valute. Tutto il resto è negativo, in particolare la capacità/volontà di supportare il credito. In estrema sintesi, la presenza non basta, c’è molto da fare, e occorre capitale fresco. Soprattutto in chiave export e di supporto all’internazionalizzazione.
Dalle risposte del campione, balzano all’occhio due ulteriori elementi. In primis, emerge la scarsa capacità del sistema creditizio nazionale di supportare le aziende italiane, sul fronte del reperimento di finanziamenti.
In secondo luogo, le aziende dimostrano invece un vivo interesse nei confronti di altre e più durature forme di finanziamento, come il private equity (investitori in capitale di rischio) e i minibond (uno strumento innovativo simile alle obbligazioni).
Il campione esaminato dichiara, grande interesse per soluzioni di “private equity” (60,9%), seguite da “minibond/cambiali finanziarie” (26,1%), “emissione di obbligazioni” (17,4%), “quotazione in borsa” 13%, “fondi investimento immobiliari” (8,7%).
Un risultato che indica due punti essenziali. Il primo: le aziende italiane hanno “fame di denaro fresco”. Il secondo: le aziende hanno l’esigenza di finanziamenti e medio e lungo termine. Entrambe queste necessità sono destinate alla crescita del business.